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Riproponiamo la serie di testi riportati nei fogli degli avvisi tra maggio e luglio. Sono dei contributi sulla celebrazione eucaristica preparati dall'Ufficio diocesano per la Liturgia, apparsi su “Collegamento Pastorale” (fascicolo di informazione e collegamento) tra settembre 2010 e maggio 2011. Confidiamo possano essere un contributo per la formazione di ogni fedele. Si può richiedere ai parroci il fascicolo con i testi integrali delle riflessioni.

 

1. CELEBRARE È … UN’ARTE

 

L’arte non riguarda solo i grandi capolavori (della pittura, scultura, musica et.). è arte anche la cura con cui ci si veste in qualche occasione particolare, o il modo di imbandire la tavola per un pasto di festa... Quando vogliamo provare a far le cose bene, tutti noi compiamo azioni con arte, anche senza rendercene conto.

Allo stesso modo anche la celebrazione liturgica, che è esperienza di alleanza, di incontro tra Dio, in Cristo (lo Sposo), e noi, il suo popolo, (la sua Sposa), chiede di essere vissuta con arte: l’"arte di celebrare".

La parola 'arte' significa 'mettere in ordine', come le parole 'aritmetica, ritmo', e un'altra che ci interessa ancor più da vicino: 'rito'.

Che si tratti di colori o di suoni, di legno o di cemento, di fiori o di piatti...l'arte è sempre un mettere in ordine diversi elementi che formeranno un tutto unitario combinandosi ad altri.

'I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente di molte spiegazioni' (Sacrosanctum Concilium, 34).

Si celebra con arte quando i diversi elementi della liturgia (quelli visibili, udibili, toccabili, gustabili, odorabili...) sono ordinati in modo dignitoso e armonico e permettono all'invisibile della fede e della grazia di essere manifestato.

Celebrare con arte significa mettere in buon ordine gli spostamenti, gli atteggiamenti e le posture, le parole e i gesti, le letture e i canti; e ancora: intervenire nei tempi e negli spazi adeguati, mantenere il tono giusto della comunicazione, in una buona coerenza con ciò che precede e ciò che segue, in una buona corrispondenza tra ciò che viene fatto e ciò che viene detto.

La liturgia non è una catechesi, per cui al centro dell’attenzione non c’è una trasmissione di contenuti, di idee; si tratta, piuttosto, di vivere un incontro.

La celebrazione non è un oggetto da comprendere intellettualmente, essa è piuttosto contatto, emozione, incontro. È azione, è movimento, è un «esodo» continuo per incontrarsi con l'Invisibile a partire da elementi visibili.

La grazia di Dio ci raggiunge non ‘nonostante’ ma proprio ‘attraverso’ i gesti, i movimenti, i suoni, gli odori, i sapori.

Celebrare con arte significa allora lasciarsi afferrare dall'azione di Dio che opera nei segni liturgici, prendere sul serio il senso delle parole e dei gesti che si pongono in atto durante la celebrazione. Perché si partecipa alle celebrazioni in modo pieno, attivo e consapevole, non solo con la mente, ma con l'anima e il corpo, con tutti i cinque sensi, in sintonia con il mistero in atto nella celebrazione.

 

2. I Riti di Introduzione: entrare nel mistero

 

È normale, per noi, sistemare e presentare un quadro all’interno di una cornice, tanto più curata quanto preziosa e significativa è l’immagine.

I Riti di Introduzione (insieme con i riti di conclusione) sono la “cornice” rituale del quadro formato dalla Liturgia della Parola e dalla Liturgia eucaristica… Attenzione però, a non dare più importanza alla cornice che al quadro!

Infatti: I riti che precedono la Liturgia della Parola, (...) hanno un carattere d'inizio, d'introduzione e di preparazione. Scopo di questi riti è che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità, e si dispongano ad ascoltare con fede la Parola di Dio e a celebrare degnamente l'eucaristia. (OGMR 46)

Spesso si sottovaluta il fatto che non basta essere radunati in uno stesso luogo per essere una comunità (si pensi a quando si va al cinema, oppure quando si è in una carrozza del treno...).

Non è sufficiente la presenza fisica nello stesso luogo. Si tratta di diventare assemblea, di formare una comunità, sul modello dei primi cristiani dei quali si poteva dire “tutti coloro che erano venuti alla fede erano un cuor solo ed un’anima sola” (At 4,32).

Proprio per superare il semplice ritrovarsi insieme, ecco alcune attenzioni preziose: un atteggiamento di accoglienza e un ambiente accogliente; prima di iniziare la messa provare alcuni ritornelli, e fornire alcune informazioni sulla celebrazione.

Nello stesso tempo, i Riti di Introduzione hanno anche lo scopo di farci prendere coscienza che la messa non è un semplice incontro tra amici, o conoscenti, ma risposta a Dio che ci convoca per celebrare e rivivere ciò che Gesù ha fatto per noi. Così essi mettono in opera quel dispositivo della partecipazione dei fedeli che contribuisce non poco a rendere fruttuosa la Liturgia della Parola e la Liturgia eucaristica.

Il canto d’ingresso è la prima azione comune, e come tale è ciò che ritualmente dà forma all’assemblea. Da qui la necessità che l’assemblea sia coinvolta almeno nel ritornello. Si tratta di un canto destinato ad accompagnare una processione. Se nella normalità essa va dalla sacristia al presbiterio, sarebbe importante, almeno in alcune occasioni, far partire la processione dal fondo della chiesa. In questo modo essa è indicativa del cammino che ciascuno di noi ha fatto per arrivare in chiesa (è la settimana vissuta che viene portata davanti a Dio) e soprattutto è il segno di Cristo che entra in mezzo al suo popolo e lo attira al suo seguito (per questo la processione viene aperta dalla croce, dietro la quale camminano i ministri).

 

 

3. I Riti di Introduzione

 

L’inchino e il bacio dell'altare sono atti rituali di saluto. Antropologicamente il bacio è gesto di relazione interpersonale; teologicamente l'altare è Cristo. Perciò, il sacerdote celebrante, baciando l'altare a nome dell'intera assemblea adunata, bacia Cristo ed esprime, mediante la metafora nuziale, la com-presenza e la co-appartenenza di Cristo e della Chiesa nell'azione liturgica. L’uso dell’incenso può aiutare a intuire il valore “teo-logico” di questo momento (e il pro-fumo, se è veramente tale, attiva ulteriori attenzioni da parte dei fedeli).

Dopo il saluto iniziale è possibile una introduzione alla messa del giorno (OGMR 50). Essere essenziali e precisi è un’arte delicata e difficile. Non è questo il momento di un lungo intervento; bastano poche parole idonee a comunicare nel modo più sintetico e completo possibile l’idea matrice della celebrazione. Per questo è opportuno che venga preparata in anticipo e messa per iscritto. E’ possibile anche prendere spunto dal testo dell’antifona d’ingresso del messale, opportunamente adattata e trasformata (cfr. OGMR 48).

Tutta la Chiesa, perfino nei suoi membri più peccatori, è santa “pura e immacolata” (Ef 5,27). E’ senza peccato , ma non senza peccatori. La sua santità consiste esattamente nel riconoscersi peccatrice per poter accogliere il perdono di Gesù. E’ dunque normale che la celebrazione cristiana comporti il riconoscimento e il perdono dei peccati. Bisogna però fare attenzione a non trasformare l’Atto penitenziale in una introspezione colpevolizzante. Si tratta piuttosto di un’acclamazione alla misericordia di Dio. La preparazione penitenziale è già l’azione di grazie per il perdono che noi non cessiamo di ricevere.

“Il Kyrie è un canto con il quale i fedeli acclamano il Signore e (implorano) la sua misericordia” (OGMR 52) .

“La domenica, specialmente nel tempo pasquale, si può sostituire il consueto atto penitenziale con la benedizione e l’aspersione dell’acqua in memoria del battesimo” (OGMR 51)[1].

L’Inno di lode (il Gloria) è, per sua natura, un testo da cantare: l’esecuzione in canto è la sua modalità espressiva più appropriata e ordinaria. Il soggetto adeguato di questa esecuzione è l'intera assemblea celebrante. Ne consegue che il canto del Gloria, sia in latino che in italiano, deve far parte, di diritto, del repertorio base di una comunità. Per facilitare la partecipazione si può valorizzare il dialogo assemblea-schola, oppure si possono utilizzare alcune formule a ritornello.

Trattandosi di un inno di lode, l’atteggiamento con cui parteciparvi fisicamente consiste nel rimanere in piedi, anche quando il Gloria venisse cantato dal solo coro. In caso contrario l’atteggiamento assunto dal corpo (seduti) andrebbe a contraddire quanto espresso dal canto.

La colletta, ultimo degli elementi dei riti di introduzione, non è una semplice preghiera; in realtà essa contiene al suo interno un vero e proprio rito.

Poi il sacerdote invita il popolo a pregare; e tutti insieme con lui stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e per poter formulare nel proprio cuore le proprie intenzioni di preghiera. Quindi il sacerdote dice l'orazione..... (OGMR 54).

Si chiama colletta perché raccoglie la preghiera personale e intima dei fedeli, formulata in silenzio, nella preghiera ad alta voce del sacerdote che presiede la celebrazione; in questo passaggio si rende manifesta l'avvenuta congregatio fidelium per partecipare alla mensa della Parola e alla mensa eucaristica. È, quindi, di fondamentale importanza lo spazio di silenzio (troppo spesso saltato a pie’ pari) «per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e per poter formulare nel proprio cuore la preghiera personale»..

 

 

4. La liturgia della Parola

 

Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha disposto che i tesori della Sacra Scrittura fossero più abbondantemente aperti e messi a disposizione dei fedeli anche nella celebrazione della liturgia, e non solo nella Messa. Infatti, mentre prima si celebravano quasi tutti i sacramenti senza la liturgia della Parola, oggi questo non è più possibile: si può avere una celebrazione della sola Parola, ma non una celebrazione del solo sacramento. È la Parola di Dio che dà il significato ai segni sacramentali.

Per tradurre la preoccupazione del Concilio, la riforma ha prodotto una serie di Lezionari, sia per la Messa che per le altre celebrazioni, seguendo i quali, nell'arco di due o tre anni, leggiamo quasi tutta la Scrittura. Certamente questo fatto è grande fonte di istruzione o formazione permanente del popolo cristiano. Ma, attenzione: lo scopo della celebrazione non è l'istruzione! Ci sono altri tempi per far questo: l'evangelizzazione o la catechesi. Nella liturgia noi celebriamo il mistero di Cristo, in quanto lo rendiamo presente, perché noi ne veniamo a contatto, e "toccandolo" siamo salvati.

Quando nella Messa, un lettore sale all’ambone per proclamare la lettura e l’assemblea si mette seduta in atteggiamento di ascolto, l’esperienza non è semplicemente quella di leggere un testo scritto, ma di ascoltare una Parola viva, cioè Cristo stesso (SC 7).

La Parola che risuona nell'aula è la voce di Cristo stesso che parla al suo popolo riunito per celebrare i santi misteri.

La proclamazione è qualcosa in più rispetto alla lettura, porta con sé l'idea di un atto pubblico e solenne: non si legge un pezzo di Bibbia, ma si fa l'esperienza del Signore che parla; il lettore non è tanto chiamato a ‘leggere’, quanto a ‘dar voce’ a Cristo affinché parli oggi al suo popolo.

Queste affermazioni suggeriscono una serie di attenzioni pratiche che favoriscono l'evento:

  • quando una persona ci parla, l’unico atteggiamento corretto è ascoltarla; così quando, nella Liturgia della Parola, Dio parla al suo popolo attraverso la voce del lettore, l’assemblea riunita è chiamata a mettersi in atteggiamento di ascolto e non ad accompagnare il lettore leggendo quel passo biblico da un messalino o da un foglietto in maniera individuale; i foglietti possono essere utilizzati per riprendere le letture dopo la comunione, o portati a casa per rileggere i testi sacri durante la settimana, ma in quel momento si dovrebbe ripetere quanto avvenuto nella sinagoga di Cafarnao, quando Gesù si alza per la lettura, gli viene dato il rotolo e “gli occhi di tutti erano fissi su di lui” (Lc 4,20).
  • Ciò comporta innanzitutto incaricare lettori capaci di far risuonare nel giusto modo la Scrittura.
  • Ci sia e si rispetti il luogo degno e specifico da cui proclamare la Parola; l’ambone è il luogo della Parola (e non delle parole), per cui dall’ambone vanno proclamate le letture, ed eventualmente, l’omelia e la preghiera dei fedeli (in quanto legate essenzialmente alla Parola ascoltata). Tutto il resto (avvisi, commenti, canti) va fatto da altro luogo (microfono posizionato fuori dal presbiterio, o comunque in posizione defilata).
  • Il sistema di amplificazione consenta una corretta ricezione.
  • È importante distinguere il lettore dal salmista, in quanto si tratta di due mansioni diverse (il lettore è voce di Dio che parla al popolo; il salmista è voce dell’assemblea per rispondere a Dio).
  • Per lo stesso motivo di cui sopra, il lettore non si presenti all’ambone con il foglietto, perché la lettura a cui si va a dar voce non è qualcosa che è nelle nostre mani, non è parola nostra, ma è parola che ci arriva da fuori, dall’alto... è ‘parola di Dio!’: per cui sale in un luogo rialzato (questo significa ‘ambone’) e si dà voce alla parola che lì si trova.

Per sua natura il salmo andrebbe cantato. Oggi si stanno moltiplicando le proposte musicali di ritornelli popolari da provare prima dell’inizio della Messa. Se il salmista non canta i versetti, almeno ricordi di avere davanti una poesia e di trattarla, quindi, come tale.......        

 

 

5. La presentazione dei doni

 

Durante l'ultima cena, Gesù ha voluto dare un senso speciale ad alcuni gesti che di solito si fanno durante un pranzo ordinario. Lo dimostra il suo comando: “fate questo in memoria di me”. Si è venuta così a creare una tradizione che ci è riportata da S. Paolo (1 Cor 11,23-26) come anche dagli evangelisti Matteo, Marco e Luca. Il “questo” che Gesù ha comandato di fare e che la Chiesa ha capito di dover fare in memoria di lui si può ricondurre a quattro gesti significativi che compiuti da Gesù nell’ultima cena: 1. prese il pane e il vino; 2. rese grazie a Dio suo Padre; 3. spezzò il pane; 4. diede ai discepoli il pane da mangiare e il calice da bere.

Queste quattro azioni formano l'ossatura della liturgia eucaristica: 1. Preparazione dei doni simbolici del pane e vino; 2. Preghiera eucaristica in cui i simboli vengono assunti nell’offerta di Gesù al Padre; 3. Frazione del pane in cui i doni vengono preparati per essere offerti all’assemblea; 4. Comunione: accoglimento dei doni da parte dell’assemblea.

Si realizza, in questo modo, un doppio movimento - di andata e ritorno - che manifesta il “mistero dell'offrire”, dello scambio: dall'assemblea all'altare, per l’offerta; dall'altare all'assemblea, per la condivisione e la comunione.

- Innanzitutto prendiamo coscienza che tutto ciò che abbiamo e riusciamo a fare è dono di Dio e lo presentiamo a lui nei segni del pane e del vino: è una prima offerta, quella che chiamiamo “presentazione dei doni”.

- Per una particolare azione dello Spirito i nostri doni sono assunti dall’offerta di Gesù al Padre nei simboli del pane e del vino; anche noi, come singoli e come comunità, diventiamo corpo di Cristo, siamo offerti in lui come sacrificio gradito a Dio Padre; il culmine dell’unica offerta avviene nell’elevazione conclusiva della preghiera eucaristica, quando il sacerdote alza il pane e il vino consacrati dicendo: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te Dio Padre onnipotente ogni onore e gloria...” (“dossologia”)

- Dopo il gesto dello spezzare del pane, al momento della comunione, i doni ritornano all’assemblea: il Padre offre il corpo di Cristo, cioè Cristo e tutti coloro che si sono offerti in lui.

 

CONSEGUENZE RITUALI PER LE NOSTRE CELEBRAZIONI

  • Preparazione della mensa
  • Processione con i doni

In ogni famiglia, quando arriva l’ora di mangiare si prepara la tavola. Così anche nella Messa. Prima di tutto si prepara l’altare, ponendovi sopra il corporale, il purificatoio, il messale e il calice (se non viene utilizzato per portare il vino).

Può essere significativo, in alcune circostanze, evidenziare la preparazione sistemando una tovaglia più bella e una più evidente decorazione floreale.

In ogni caso la mensa dell’altare, fino a questo momento della celebrazione, non dovrebbe essere “preparata” per la liturgia eucaristica e dovrebbe accogliere, eventualmente, solo il libro dei Vangeli.

Quando la tavola è pronta, si portano le cose da mangiare… Anche nella Messa, all’inizio della Liturgia eucaristica, alcuni fedeli portano il pane e il vino. È opportuno per questo predisporre un tavolino in navata e prevedere come normale la processione con i doni all’altare.

Cosa portare in questa processione?

Vanno distinti due generi di offerte:

- il pane e il vino: sono le vere offerte simboliche, le sole che vengono poste sull’altare; bastano la patena con le particole e le ampolline col vino e l’acqua! I fedeli avanzano in processione dal fondo della chiesa e attraversano l'assemblea, esprimendo così che si tratta di doni che simboleggiano le offerte del popolo di Dio (“...frutti della terra, della vite e del lavoro dell’uomo”).

- i doni per i poveri, l’offerta in denaro: possono far parte dello stesso movimento (in alcune Parrocchie si va diffondendo la rapida raccolta delle offerte da parte di parecchi incaricati che poi seguono verso l’altare i fedeli che portano pane e vino), ma non devono es sere messe sull’altare per evidenziare che esse non sono le offerte simboliche e hanno

dei destinatari precisi (i poveri, le necessità della chiesa...).

 

In alcune occasioni speciali (Giornata Missionaria, Giornata per il Seminario, Carità del Papa…) si può anche invitare i fedeli ad uscire dai banchi in forma processionale per andare a deporre la propria offerta davanti all’altare (si tratta di un gesto rituale possibile a tutti senza particolari imbarazzi). Di conseguenza, ecco un elenco di cose da evitare, per non travisare il significato di questo gesto:

1) Non si portano cose che non siano doni, cose dalle quali il proprietario non intende affatto separarsi. Si tenga conto di questo soprattutto nelle celebrazioni con i ragazzi, i quali, anziché essere educati alla fatica del dono (che richiede amore e sacrificio), si vedrebbero coinvolti in un simpatico teatrino che impegna in nulla e che non richiede alcun sacrificio personale. Che messaggio educativo e catechistico si manderebbe?

2) La processione offertoriale non è l’occasione per cosiddetti doni “simbolici” e tanto meno per interminabili didascalie più o meno moraleggianti: i “simboli” effettivamente tali – diversi dal pane e al vino – dovrebbero essere utilizzati per la processione d’ingresso, quando l’assemblea si costituisce e si riconosce anche grazie al contesto che viene preparato.

3) Non si porta il calice vuoto, in quanto è il vino ad essere donato, non il suo contenitore.

4) Non è questo il momento di portare doni personali per chi presiede o per altri festeggiati. Questi si possono eventualmente presentare alla fine della celebrazione.

5) Anche le duplicazioni del pane e del vino per l'Eucaristia (pagnotte, spighe e grappoli d'uva) sono inopportune, in quanto grano ed uva non sono pane e vino (manca ancora l'applicazione del genio e della fatica umana); per il pane, si finirebbe per ottenere un risultato contrario a quello che ci si propone. Infatti già le particole comunemente in uso, per forma, colore, spessore e sapore evocano a stento il pane; affiancate da una pagnotta si indurrebbe l'idea che si tratti davvero di due cose completamente distinte: le ostie sono ostie (!?) il pane è pane.

6) È fuori luogo, infine, portare all’altare la Bibbia o il Vangelo. È infatti la Chiesa che annuncia la Parola ai presenti, non sono i fedeli a consegnare la Parola al ministro ordinato e alla comunità. Inoltre la Parola non può comparire a questo punto in quanto significherebbe dimenticare che essa è già stata al centro di tutta la prima parte della Messa (liturgia della Parola), e che ispira e plasma l'intera eucaristia, dalle preghiere fino ai gesti e ai canti.           


•  Il canto di offertorio
accompagna la processione con la quale si portano i doni; esso si protrae almeno fino a possibile accompagnare con il canto anche OGMR 74). Va però tenuto presente che (soprattutto in assenza della processione) questo momento rituale è breve e necessita per attenzione ai temi trattati nei Ave Maria, in occasione dei matrimoni, in questo momento è opportuno scegliere canti che si possano modellare alla lunghezza comunque sempre possibile (e a volte auspicabile), scegliere di suonare invece che cantare.
Se si esegue un canto o una musica chi presiede eviti di pronunciare ad alta voce e al miOGMR (n. 141) prevede che queste preghiere siano nordirle ad alta voce. In questo caso il popolo risponde: “benedetto nei secoli il Signore!”.

 


6. I riti che preparano la comunione


- Il padre nostro
Là dove la comunità dei figli di Dio, rigenerati nel battesimo, si raccoglie attorno alla menRm 8,15), nella forza dello Spirito, ripetendo la preghiera del Signore. E quanto avviene in tutte le liturgie cristiane fin dagli inizi della Chiesa. ecclesiale per eccellenza: vi predomina il proe l'aggettivo nostro. Questo carattere ecclesiale si fonda sul battesimo, mediante il quale siamo resi figli di Dio e fratelli in Cristo. Recitando il Padre nostro nella Messa, siamo richiamati alla nostra dignità di figli di Dio, di battezzati. Per questo motivo è naturale che il Padre Nostro sia recitato o cantato in piedi, cioè con atteggiamento che manifesta la nostra dignità di figli davanti al Padre, nonostante le noinoltre significativo che alle parole che escono dalle labbra e dal cuore, corrisponda il gesto delle braccia allargate conformando il nostro atteggiamento a quello altro non previsto dal Messale), in quanto la dimensione orizzontale della preghiera (il sentirsi fratelli) sarà evidenziata subito dopo nello scambio di pace, per cui diventerebbe un doppione. Di per sé il Padre nostro è una preghiera e non un canto; nel caso in cui si decidesse di cantarlo si ricordi la fondamentale dimensione e funzione comunitaria di questo testo, per cui deve poter essere cantato da tutti. possibile, comunque, preparare anche altre formule introduttive, collegandole più coerentemente con la celebrazione in atto e con la Parola ascoltata. In ogni caso, va tenuto preintroduzione non appaia più lunga della preinsegnamento di Gesù e al battesimo che ci permette di osare nei confronti di Dio.

 

- L’embolismo (“Liberaci Signore da tutti i mali...” - “Tuo è il regno...”). Presente in quasi tutte le tradizioni liturgiche, questo testo sviluppa la richiesta conclusiva della preghiera del Signore: “Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male...”. Confrontata con la pre-
ghiera successiva (“Signore Gesù Cristo...”), appare più questa come la preghiera ove, portandovi dentro il mondo intero, imploriamo la pace per il nostro tempo, specialmente per tutte le regioni che vivono di pesanti conflitti armati, ma anche per la pace nel nostro pae-
se e nelle nostre famiglie. La conclusione della preghiera riprende il Padre nostro sviluppando la richiesta “venga il tuo regno” e introduce contemporaneamente l’acclamazione dell’assemblea (“Tuo è il regno...”). Se si tiene presente che tutte le preghiere si concludono con l’Amen dell’assemblea, il Padre nostro appare come un’eccezione: infatti la vera conclusione si trova solo a questo punto con l’acclamazione “Tuo è il regno...”.

 

- “Signore Gesù Cristo...”. E’ curioso il fatto che questa preghiera, che in origine era recitata sottovoce solo dal prete, in quanto serviva a prepararsi per dare il dono della pace (“non guardare ai miei peccati...”), oggi abbia preso, per iniziativa di molti presidenti, una dimensione comunitaria.... In realtà il progetto liturgico prevede, come per le altre preghiere, l’intervento del presidente con l’assenso finale dell’assemblea. Inoltre si tratta di una preghiera per la Chiesa e per la sua unità. Questa sequenza rituale (preghiera-augurio-gesto) mette in risalto che l’Eucaristia ci chiede di accogliere un dono, l’offerta di un amore che impegna a stabilire rapporti di comunione con il prossimo. Non a caso, l’introduzione al messale scriverebbe che il gesto viene introdotto con le parole “scambiatevi il dono della pace” (OGMR 154). Non si tratta di un gesto cameratesco per scambiarsi i saluti e neppure un gesto sostitutivo di quell’accoglienza che deve trovare spazio prima della celebrazione (OGMR 105d); è un gesto profondamente “teologico”: esprime che noi siamo membra gli uni degli altri, legati da un vincolo più forte di quello del sangue. Siamo ecclesìa Chiesa non perché siamo amici, ma perché siamo uniti nella pace di Cristo. Essa è come un fiume che ha la sua sorgente nell’Eucaristia, l’evento di pace per eccellenza. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”: sono le parole con cui Gesù spiega agli apostoli il significato della morte che sta per subire: nascosta nella sua morte c’è la nostra pace. Per questo la prima cosa che il Signore risorto dice ai suoi nell’apparire loro è: “pace a voi”. La pace è in primo luogo dono di Dio da accogliere (= comunione), e compito da vivere (alla conclusione della Messa ci viene detto: “andate in pace”)

 

- “Scambiatevi un gesto di pace”. L’invito, con cui il prete (o il diacono, se è presente) invitano l’assemblea a scambiarsi il dono della pace di Cristo è volutamente generico (“un gesto”): l’importante è che sia un gesto significativo e vero. Tenendo conto della diversità delle relazioni tra le persone, per qualcuno (sposi, genitori e figli) sarà un bacio e/o un abbraccio, per altri (semplici conoscenti) una stretta di mano... ad ognuno la libertà di decidere. Il gesto è scambiato “secondo le consuetudini del luogo”. Pur accettando un minimo di inevitabile disordine (è un rito che coinvolge l’intera assemblea), va ricordato che siamo di fronte ad un gesto simbolico. Se, quindi, un gesto troppo ‘sterilizzato’, troppo sintetico non risulta significativo, non c’è comunque bisogno di far il giro di tutta la chiesa: le persone che mi sono attorno rappresentano tutta la comunità radunata e l’intera famiglia umana. Per questo, come prescrive il Messale, “conviene che ciascuno dia la pace soltanto a chi gli sta più vicino, in modo sobrio”. Non si tratta, infine, di un gesto obbligatorio, per cui in determinate circostanze, può essere tralasciato (e qualche volta può essere utile per non scadere nell’abitudine e nella superficialità); la scelta, comunque, come sempre nella liturgia, va fatta cercando il “bene” dell’assemblea, e non a partire da altri motivi più ‘umorali’.                      

- La frazione del pane
Nelle prime comunità cristiane questo gesto identificava la cena del Signore (cfr. At 2,42). In antica ampiezza del rito, oggi, purtroppo, la frazione del pane viene fatta in modo sbrigativo, a volte addirittura oscurata dal gesto di pace ancora in corso. La riforma liturgica ha voluto restituire a questo rito visibilità  e pregnanza simbolica. È necessario ridare spessore a questo rito perché la nostra partecipazione al sacrificio di Cristo consiste nel farci anche noi, come Lui, pane spezzato per gli altri nella fraterna comunione, nella condivisione. , la natura di segno esige che la OGMR 321). Si trova in commercio del pane confezionato in modo tale da poter davvero essere spezzato in più parti da distribuire ai fedeli. Basterebbe consacrarne due o tre di queste dimensioni e il gesto della frazione del pane ritroverebbe visibilità e consistenza. Si può ovviamente integrare con ostie più piccole.

- Agnello di Dio 
E’ il canto che accompagna la frazione del pane: una supplica di tutta l'assemblea rivolta direttamente a Gesù con il titolo di «Agnello di Dio». Le parole riprendono la frase del Gloria: «Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre, tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi». «Abitualmente l’invocazione Agnello di Dio viene cantata dalla schola o dal cantore con la risposta del popolo, oppure la si dice almeno ad alta voce. L’invocazione accompagna la frazione del pane, perciò la si può ripetere tanto quanto è necessario fino alla conclusione del rito. L’ultima invocazione termina con le parole: dona a noi la pace» (OGMR 83). E’ importante che le realtà corali inseriscano questo canto tra gli abituali della celebrazione eucaristica. Alcune proposte moderne prevedono l’inserimento all’interno di ogni supplica, tra “...che togli i peccati del mondo” e” abbi pietà di noi”, dei piccoli inserti ricavati dalle tematiche della liturgia del giorno (es. “...e ci inviti alla cena del Regno..”, “...e rinnovi tutto il creato...”). In questo modo, oltre a richiamare i temi del giorno, il canto può essere allungato quanto basta per coprire tutta la frazione del pane.

 


 
7. I riti che attuano la comunione


La comunione eucaristica, l'ha detto Gesù, è il fine della consacrazione: «Prendete e mangiate... Prendete e bevete...». Il banchetto è pronto: e noi, fedeli, riceviamo l’invito a parteciparvi. Sappiamo che il dono è grandissimo e immeritato, perciò esprimiamo un atto di umiltà e di fiducia, ripetendo le parole del centurione di Cafarnao: “O Signore non sono degno...”. Quindi inizia la distribuzione della comunione.
In processione.
Ricevere la comunione è un gesto comunitario ed ecclesiale: si tratta di mettersi in cammino verso il Signore e di farlo insieme. Il Messale lo ricorda parlando delle funzioni del canto di comunione: “con esso si esprime, mediante l’accordo delle voci, l’unione spirituale di coloro che si comunicano, si manifesta la gioia del cuore e si pone maggiormente in luce il carattere comunitario della processione di coloro che si accostano a ricevere l’Eucaristia” (OGMR 86). Una processione che, come quella d'ingresso, e forse anche di più, intende evidenziare che noi siamo, per usare le parole di un canto a tutti conosciuto, “popolo in cammino sulla strada verso il Regno”, verso l'eterna Gerusalemme, sostenuto dal pane del cielo. Stiamo in piedi come quei servi «con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese... che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che quando arriva e bussa, gli aprano subito» (Lc 12,35-36). 
A fronte di chi rimpiange la tradizione tardo-medievale di ricevere la comunione in ginocchio, va ricordato che nessun libro liturgico preconciliare riguardante la Messa prescriveva esplicitamente la comunione in ginocchio, eccezion fatta per il Rituale Romano che, però, si riferiva alla comunione fuori della Messa.

L’atteggiamento richiesto dalla liturgia è in piedi e attraverso una processione. È significativo anche il gesto dell’aprire e dello stendere le mani, che troviamo all’inizio e a questo punto della liturgia eucaristica: l’Eucaristia è un invito ad aprire le proprie mani per offrire a Dio “il frutto della terra e del lavoro dell’uomo” e per ricevere poi da lui il dono per eccellenza, il corpo di Cristo.

Sulla mano o sulla lingua?

Per quasi tutto il primo millennio i cristiani hanno ricevuto la comunione sulla mano. Ne dà testimonianza un testo di Cirillo di Gerusalemme: «Quando ti avvicini... fai della tua mano sinistra un trono per la tua mano destra, poiché questa deve ricevere il re e, nel cavo della mano, ricevi il corpo di Cristo dicendo Amen...». Simile è la testimonianza di Teodoro di Mopsuestia: «Allora ciascuno si avvicina con lo sguardo abbassato e le mani tese...».

Solo fra il IX e il X secolo si instaura progressivamente la prassi di ricevere la comunione direttamente in bocca. Il motivo di questo cambiamento è la convinzione che soltanto le mani consacrate dall'unzione potevano toccare l'ostia. In verità, a partire dal bagno battesimale e dall’unzione crismale, tutta la persona del cristiano, anima e corpo, è consacrata e perciò abilitata ad esprimere con la vita la sua appartenenza-consacrazione al Signore e a celebrare il nuovo culto (LG 10).

Così i vescovi italiani hanno stabilito che «accanto all’uso della comunione sulla lingua, la Chiesa permette di dare l’eucaristia deponendola sulle mani dei fedeli protese entrambe verso il ministro, ad accogliere con riverenza e rispetto il corpo di Cristo. I fedeli sono liberi di scegliere tra i due modi ammessi» (n. 15 dell’Istruzione CEI Sulla comunione eucaristica, Roma, 1989).

Per questo motivo non rientra nelle facoltà del presbitero obbligare i fedeli all’uno o all’altro modo di fare la comunione. Essa va distribuita secondo la modalità scelta dal fedele. Piuttosto sarà importante educare i fedeli alla cura del gesto, come ancora i Vescovi insegnano: «Il fedele che desidera ricevere la comunione sulla mano presenta al ministro entrambe le mani, una sull'altra e mentre riceve con rispetto e devozione il corpo di Cristo risponde “Amen” facendo un leggero inchino» (Indicazioni CEI per la comunione sulla mano, n.4). Dopo aver ricevuto la comunione ci si sposta di lato e si consuma il Pane eucaristico. Solo successivamente si ritorna al posto.

È necessario, fin dal catechismo in preparazione alla prima partecipazione all'Eucaristia, istruire i ragazzi (e anche gli adulti) con una corretta catechesi su questo gesto che si pone al vertice della partecipazione attiva alla Messa.

Il gesto dell’aprire e stendere le mani per ricevere il dono di Cristo, trova un collegamento significativo anche con il rito della pace (che, per questo motivo, il rito romano colloca prima della comunione): essere in pace e in comunione tra di noi è condizione per comunicare con Cristo e con Dio. 

La comunione: una professione di fede              
Quando il ministro presenta il pane consacrato dice «Il corpo di Cristo»; la risposta più spontanea potrebbe essere «grazie»! Invece si risponde “amen!”, perché il gesto della comunione è una professione di fede, il più specifico atto di fede all'interno della Messa.«Non è senza ragione che tu dici Amen riconoscendo nel tuo intimo che ricevi il corpo di Cristo. Quando ti presenti per riceverlo, il vescovo ti dice: "Il corpo di Cristo" e tu rispondi Amen, cioè "È vero"; il tuo animo custodisca ciò che la tua lingua riconosce» (S. Ambrogio). «Si assume con la bocca ciò che si crede col cuore» (S. Leone Magno).

Il momento della comunione è una professione di fede nel Cristo realmente presente non solo nei segni del pane e del vino, ma anche nel segno sacramentale della Chiesa, resa tutta presente dall'assemblea (cfr. LG 26). S. Agostino ricorda che nella comunione noi riceviamo ciò che siamo, cioè il suo corpo mistico o ecclesiale: «Voi siete il corpo e le membra di Cristo; sulla mensa del Signore è deposto il vostro mistero, voi ricevete il vostro mistero. A ciò che siete voi rispondete: Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: "Il corpo di Cristo" e tu rispondi: "Amen". Sii membro del corpo di Cristo perché sia veritiero il tuo Amen».

La comunione al calice       
Nei primi secoli era normale fare la comunione prima con il pane e poi, separatamente con il vino. Per evitare inconvenienti ad un certo punto la comunione al calice è stata sostituita con la pratica dell'intinzione.

L'attuale normativa permette sempre la comunione anche al calice (OGMR 283) con questa giustificazione: «La santa comunione esprime con maggiore pienezza la sua forma di segno, se viene fatta sotto le due specie. Risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico e si esprime più chiaramente la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel sangue del Signore ed è più intuitivo il rapporto tra il banchetto eucaristico e il convito escatologico nel regno del Padre» (OGMR 281).

La comunione al calice nella Chiesa romana è, comunque, una possibilità, non un obbligo.

Volendo, però, essere fedeli al comando del Signore, Gesù ha detto di bere e non di intingere. È questo il motivo per cui chi presiede è tenuto sempre a fare la comunione bevendo al calice e non per intinzione (cfr. OGMR 246). Di fronte al rischio che alcune gocce di vino cadano per terra, si suggerisce che il sacerdote che distribuisce la comunione, anziché tenere il vaso con le ostie tenga il calice (v. precisazioni CEI al MR n. 11).

Un dono che si riceve         
A partire dal gesto di Gesù che durante l'ultima cena porge egli stesso il pane e il calice ai suoi discepoli, nella Chiesa si è instaurata la prassi che la comunione va sempre ricevuta da un ministro. «Non è permesso ai fedeli prendere da se stessi il pane consacrato o il sacro calice, tanto meno passarselo di mano in mano» (OGMR 160): la comunione è un dono che si riceve. Se un ministro straordinario della comunione viene chiamato ad aiutare nella distribuzione, prima fa lui la comunione ricevendola da chi presiede, quindi prende la pisside dalle mani del presidente e si avvicina ai fedeli per la distribuzione.

Il nuovo Codice di Diritto Canonico (can. 917) prevede la possibilità di comunicarsi due volte al giorno, se c’è un motivo per partecipare ad una seconda Messa, proprio perché questa, in quanto banchetto sacrificale, comporta per sua stessa natura la Comunione.

Il ministro straordinario della comunione            
Con la riforma liturgica del Vaticano II, oltre al recupero del diacono come ministro ordinario della comunione, è previsto che uomini e donne, in virtù di un semplice mandato da parte del parroco, siano ministri straordinari della comunione secondo le norme stabilite dall’Istruzione Immensae caritatis. Si tratta di un gesto che, oltre a rispondere ad una precisa esigenza, manifesta la missione di ogni battezzato di portare e comunicare la presenza di Cristo.

Come prevedono le indicazioni diocesane per la diocesi di Vicenza, dato che «l'esercizio di questo ministero non cambia l'identità ecclesiale del ministro, egli lo compie indossando gli abiti laicali o religiosi propri della sua condizione; essi siano semplici e decorosi. La tunica bianca può essere usata solo quando il ministro è chiamato a svolgere in tutta la messa la funzione di accolito. Ogni ministro si prepari con cura a svolgere la propria mansione nel pieno rispetto delle norme della liturgia, affinché tutto si svolga in un clima di fede e di carità. Non sono consentiti al ministro gesti rituali non previsti dalla liturgia, come il lavarsi le mani in pubblico».

 

Il canto durante la comunione       

Dei canti della messa (a parte quelli dell’Ordinario), è il più antico e il più importante. Cirillo di Gerusalemme ricorda il salmo 33, la cui antifona «gustate e vedete com'è buono il Signore» è particolarmente indicata per esprimere la gioia eucaristica della comunità.Se non ci sono canti, come per esempio nelle messe della settimana, il sacerdote ‘può’ leggere l'antifona proposta nel messale (e, quindi, non è obbligatoria). In ogni caso le parole dell’antifona riportata dal messale possono costituire un prezioso riferimento per la scelta del canto di comunione. Il Messale italiano, nelle feste, ha come testo del canto di comunione uno o due versetti tratti dal Vangelo proclamato in quel giorno. E’ un modo per dire che, nel momento della comunione, quel testo "si compie" per noi.

 

Il silenzio, l’inno e l’orazione         

“Ultimata la distribuzione della Comunione, il sacerdote e i fedeli, secondo l'opportunità, pregano un po' in silenzio. E' anche ammesso, se lo si desidera, che tutta l'assemblea esegua un inno, un salmo o un altro canto di lode”(OGMR 88).Come in una famiglia non si lavano i piatti quando gli invitati alla festa sono ancora presenti, con molto buon senso il messale prevede la possibilità di compiere la purificazione dei vasi sacri dopo la messa, una volta congedato il popolo (OGMR 163). Se questa viene fatta subito è più opportuno spostarsi alla credenza.

 

Dal silenzio nasce il vero canto finale (che avrebbe qui la sua collocazione) e la preghiera conclusiva, con la quale chiediamo al Padre di poter testimoniare ciò che abbiamo ricevuto.

 

 

 

8. I Riti Conclusivi

 

Se l’inizio della messa è abbastanza ben caratterizzato dai “riti di introduzione”, la sua fine lo è molto meno: essa si chiude con l’invito a cominciare la missione, a continuare la stessa missione di Cristo. Del resto, il termine “messa” ha la stessa radice di “missio”: da sempre, coloro che il Signore sceglie e chiama, non è per farne dei beneficiari privilegiati dei suoi doni a scapito degli altri...Al contrario è sempre per affidare loro una missione verso gli altri.

 

Gli avvisi       

Se vi sono avvisi da dare, a volte convenienti per informare e convocare la comunità a determinate attività, è bene darli con brevità e semplicità, prima della benedizione e congedo.Si eviti di farlo durante il silenzio della comunione o prima dell’orazione – che è chiamata, appunto, preghiera “dopo la comunione” e non “prima della benedizione” - perché verrebbero stravolte la verità e la logica delle azioni. Data l’abitudine di stampare il foglio con le notizie da portare a casa, ci si limiti a ricordare pubblicamente solo gli appuntamenti essenziali e maggiormente ecclesiali.

 

La benedizione        

Come è stato fatto in apertura di ognuna delle grandi sequenze della messa, colui che presiede rivolge ai fedeli l’augurio “Il Signore sia con voi”. Li invita poi a chiudere la messa così come l’hanno iniziata: con il segno della croce! Dopo aver benedetto Dio nel corso della messa, la liturgia chiede che Dio ancora una volta benedica il popolo, cioè ‘che gli faccia del bene’, che la celebrazione ci aiuti tutti a cominciare meglio la settimana o il giorno che viene.La benedizione può essere la semplice invocazione della Trinità e il segno della croce o la benedizione solenne con il triplice ‘amen’ di risposta.

 

Il “congedo”- missione       

La celebrazione dell'Eucaristia non è fine a se stessa, per cui non basta far le cose bene dal punto di vista rituale. Ciò che conta veramente è esprimere nella vita ciò che celebriamo nella liturgia. I singoli momenti della celebrazione sono come una esercitazione di quello che con naturalezza e semplicità dobbiamo fare nella vita ordinaria: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”(Gv. 20,21; 17,18). Chi ha incontrato Gesù è mandato a servirlo negli uomini, a fare memoria di lui annunciando la sua morte e risurrezione.

 

 




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